CAPITALISMO SENZA CAPITALE
L’ascesa dell’economia intangibile.

Gli autori sono Jonathan Haskel, docente di economia all’Imperial College di Londra e Stian Westlake, executive director al NESTA.

Il testo esamina le caratteristiche delle nuove economie de-materializzate e intangibili, indicando le differenze con i comuni modelli ai quali siamo abituati nel caso di prodotti e servizi.

Mi è piaciuta l’esposizione rigorosa, fluida e gradevole, completata da vari esempi e riferimenti a situazioni reali.

Di seguito puoi leggere la mia recensione di questo libro.


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Sin dall’inizio ci viene ricordata la definizione, tanto semplice quanto efficace, di intangibile: “qualcosa che non puoi toccare”.

E la prima cosa da adeguare, nel mondo intangibile, è la legge della domanda e dell’offerta che, nella sua forma comunemente nota, si sintetizza in due punti:

  1. all’aumentare della domanda aumenta la produzione/offerta e diminuisce il prezzo. Viceversa se il prezzo aumenta la domanda diminuisce.
  2. il costo totale di produzione aumenta all’aumentare delle quantità prodotte. Certo  i primi pezzi prodotti o le prime prestazioni di servizi erogate hanno costi maggiori perché scontano le fasi di prototipazione, testing, design, etc … ma poi produrre la n-1esima unità costa quanto produrre la n-esima.

Peccato però che in molti ambiti tutto questo non sia affatto vero.

L’esempio tipico è quello del software, una volta prodotta la prima unità poi tutte le successive hanno un costo di produzione quasi nullo. E questo vale anche per servizi come le assicurazioni, gli e-book, i film.

Gli autori individuano 4 caratteristiche chiave degli investimenti/business intangibili:

  1. sono dei costi sommersi, nel senso che se le cose vanno male non ci sono molti macchinari, immobili, asset da rivendere per rientrare delle spese sostenute.
  2. tendono a generare delle situazioni collaterali delle quali possono trarre vantaggio i competitor. Ad esempio gli autisti di Uber talvolta sono autisti anche di altre piattaforme concorrenti.
  3. sono molto più scalabili rispetto ai business basati su prodotti fisici e servizi con una elevata componente fisica (ad esempio quelli legati alla salute).
  4. si prestano bene a sviluppare sinergie con altri asset intangibili. Spesso in ottica di complementarietà mirando allo sviluppo di “ecosistemi”. Un esempio citato nel libro è quello dell’iPod che racchiude in se la progettazione di un hard disk miniaturizzato, un’attività di design spinta, e un sistema di licenze con chi detiene i diritti della musica.

Di fatto si tratta di contesti dove le economie di scala sono esponenziali e la scalabilità quasi infinita. Ne sanno qualcosa i giganti della sharing economy, tema di cui ho parlato anche nella recensione del libro Il nostro Futuro, di Alec Ross.

Viene poi esaminata la necessità che Governi e Istituzioni adeguino i loro parametri di valutazione e la loro maniera di legiferare al mondo che cambia. Attualmente quasi tutti i KPI economici ufficiali sono basati sulle economie industriali del dopoguerra.

Per quanto a me noto ad esempio l’ISTAT non include nelle misurazioni ufficiali il valore di un brand, o di un brevetto, o gli investimenti che le aziende fanno in formazione. Certo sono elementi più difficili da misurare, rispetto alle tonnellate di acciaio prodotte o al numero di lavatrici possedute, ma penso sia arrivato il momento di farlo anche perché, come diceva qualcuno, non puoi governare ciò che non riesci a misurare.

E se fare affidamento su adeguati parametri misurabili è importante per il governo di un processo aziendale figuriamoci quanto sia importante per il governo di una Nazione.

Ma del resto le audizioni pubbliche di Mark Zuckerberg dopo lo scandalo Cambridge Analytica ci hanno fatto capire, in maniera quasi “brutale”, quanto siano distanti molti politici dal capire il funzionamento di alcune realtà che stanno “dominando il mondo”.

Un esempio per tutti Amazon che, come indicato nell’articolo L’irresistibile corsa al ribasso di Amazon, di Nicolò Ornaghi, sceglie di non guadagnare dalle vendite retail continuando a vendere sottocosto. Di contro negli ultimi sette anni l’azienda ha registrato un aumento medio del fatturato di più del 20% annuo. Come per molti altri colossi digitali, ma in versione ancor più radicalizzata, la ricchezza di Amazon sta nel valore delle azioni, non negli utili attuali. La tendenza al monopolio rischia allora di diventare a un tratto strutturale e quasi obbligata. Posto che si possa già parlare di monopolio, quello di Amazon si configurerebbe però come lo strano caso di un monopolio deflativo: ed è perciò che le nostre legislazioni anti-trust, pensate per difendere gli interessi dei consumatori, non sono in grado di colpirlo.

By the way, se vuoi scoprire come Amazon punta ad aumentare gli utili nel B2C leggi questo articolo Amazon: dalle pere ai popcorn.

Spero di averti incuriosito abbastanza, puoi anche leggere 20 pagine di anteprima sul sito dell’editore e poi decidere di acquistare il libro. Buona lettura!

A presto
giancarlomocci.com